Disegnavo da qualche tempo un lampione al neon in uno spazio interno la cui luce proiettata era nera, un bagliore dell’oscurità. Successivamente cominciai a desiderare di voler affrontare una ricerca sull’idea di successo e fallimento relazionati alla nostra contemporanea cultura occidentale, probabilmente anche per comprendere meglio processi che in qualche modo ritengo mi appartengano, ma soprattutto per porre delle domande sulle dinamiche sociali del presente e del passato.
Durante un soggiorno romano nel gennaio 2002, ospite a casa d’amici, venni a sapere che nella stanza che occupavo vi aveva soggiornato il celebre attore Gene Anthony Ray, che interpretò il ballerino ribelle Leroy Johnson nel serial televisivo Fame. Conobbi alcuni retroscena della vita dell’autore dai racconti dei miei amici, una vita al limite: prostituzione, droga, alcool e vagabondaggio. Quella sera ebbi una visione, compresi che la ricerca sul successo e il fallimento, che da tempo volevo affrontare, ora poteva iniziare ad avere una forma e che l’esempio calzante doveva essere Gene Anthony Ray: lui conosceva gli estremi della vita. Iniziai a raccogliere testimonianze circa le sue vicende italiane seguendo i racconti che lasciava al suo passaggio, Milano, Bologna, Roma, Napoli, volevo raggiungerlo, ma ero sempre in ritardo di una, due settimane, le tracce che ritrovavo rafforzavano l’idea del mio lavoro.
Durante gli spostamenti abbozzai il progetto da sottoporre a Gene (…)
Ma nel viaggio che intrapresi arrivai a un vicolo cieco: Gene era partito. Voci dicevano che era andato a Londra, altre a New York, altre ancora che era morto di AIDS. (…)
E così partii per New York.
Erano i primi di marzo, la città era fredda. Arrivati a Manhattan andammo subito all’albergo. Aspettavamo l’arrivo di Gene, sentito al telefono per confermare il nostro appuntamento. Lo aspettammo un’ora, due ore, tre ore. A casa sua nessuno rispondeva, perplessi decidemmo di uscire per farci un giro. Scendemmo nella hall dell’albergo e ad attenderci, seduto su un divano a fiori, c’era lui. Il personale lo aveva bloccato, non credendo che avesse un appuntamento con noi. Non lo riconoscevo, non era l’uomo che cercavo. Cercavo Leroy Johnson, un ballerino, il ribelle che faceva follie a raffica. Invece là, in silenzio, c’era un altro uomo. Si muoveva a fatica, aveva problemi di deambulazione e una notevole difficoltà di concentrazione. Ero spaventato. (…)
Gene restò con noi per una settimana. Volevamo capirci, capire se veramente potevamo fare qualcosa insieme. Riuscii a fotografarlo, dipingendolo di quel colore con cui lo avevo immaginato.
Tratto da Dancing On The Verge, Marco Papa, edizioni Charta.